Negli ultimi 25 anni, l’oro ha mostrato una performance sorprendentemente vicina a quella dell’indice S&P 500. In certi periodi, l’oro ha perfino battuto portafogli classici come il 60/40 o il 100% azionario. Tuttavia, la maggior parte dei consulenti finanziari continua a raccomandare una presenza limitata dell’oro in portafoglio, tipicamente attorno al 5-10%.
Questo articolo esamina i motivi dietro tale raccomandazione e valuta se, alla luce dei dati storici, avrebbe senso aumentare la percentuale di oro in una strategia di investimento a lungo termine.
Non sono un consulente finanziario:
Le informazioni riportate non costituiscono sollecitazione alla collocazione del risparmio personale. L’utilizzo dei dati e delle informazioni contenute come supporto a operazioni d’investimento personale è a completo rischio del lettore.
Indice
#1. Rendimenti: oro, azioni e obbligazioni
Negli ultimi 25 anni, in sostanza tra il 2000 e il 2025, le classi d’investimento più importanti hanno avuto i seguenti rendimenti medi annui composti:
- Oro: ~7,8%
- S&P 500: ~8,5%
- Treasury 10Y: ~3,9%
- Portafoglio 60/40: ~6,5%
Nel dettaglio, tra il 2001 e il 2011 l’oro ha vissuto un decennio d’oro (letteralmente), passando da circa 270 $/oz a oltre 1.800 $/oz, con un rendimento annuo medio superiore al 17%. Questo periodo coincide con l’esplosione della bolla dot-com, l’attacco terroristico alle Torri Gemelle, due guerre, la crisi finanziaria globale e una politica monetaria sempre più espansiva. Anche successivamente, tra il 2019 e il 2023, l’oro è cresciuto di circa il 40%, superando i 2.000 $/oz in più occasioni. In confronto, l’S&P 500 ha avuto forti oscillazioni, con drawdown significativi (es. -34% nel 2020 e -20% nel 2022).
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A livello cumulativo, chi avesse investito 10.000 $ in oro nel 2000, oggi si ritroverebbe con circa 60.000 $. Un investimento equivalente nell’S&P 500 (con dividendi) porterebbe a circa 75.000 $. Ma con una differenza fondamentale: l’oro ha ottenuto questi risultati senza esposizione a rischio d’impresa e con una minore correlazione sistemica. In più, mentre l’S&P 500 si è concentrato su poche mega-cap tecnologiche negli ultimi anni, l’oro ha mantenuto un profilo più neutro e meno soggetto a rotazioni settoriali.
#2. Il portafoglio 60/40 e il ruolo dell’oro
Il portafoglio classico 60% azioni / 40% obbligazioni ha rappresentato per decenni lo standard dell’investimento bilanciato, offrendo un buon compromesso tra crescita e stabilità. Tuttavia, negli ultimi 20 anni, e in particolare nel periodo 2021-2023, questa combinazione ha mostrato limiti evidenti. Nel 2022, ad esempio, sia azioni che obbligazioni sono scese contemporaneamente, facendo registrare al 60/40 una delle peggiori performance degli ultimi decenni: -17% nell’anno. In questo scenario, l’oro ha invece mantenuto una performance positiva (+1,5%), proteggendo il capitale.
Studi sulle prestazioni storiche dei portafogli 50/40/10 (azioni/obbligazioni/oro) mostrano risultati interessanti: un incremento del rapporto Sharpe da 0,52 a 0,61, una riduzione della massima perdita annua dal -23% al -17%, e una volatilità complessiva scesa di circa un punto percentuale. Inoltre, l’oro ha spesso agito come “valvola di sicurezza” nei momenti di alta inflazione (es. 2021-2022), compensando la perdita di potere d’acquisto delle obbligazioni nominali. Anche simulazioni su orizzonti più lunghi (30 anni) indicano che una piccola esposizione in oro avrebbe migliorato la resilienza del portafoglio senza comprometterne il rendimento atteso.
Un altro vantaggio dell’oro nel 60/40 è la sua bassa correlazione con gli altri beni. In media, l’oro ha una correlazione di circa 0,1 con le azioni e 0,2 con le obbligazioni, rendendolo uno strumento prezioso per la diversificazione.
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#3. L’assenza di rendimento da flusso
Uno dei motivi principali per cui l’oro viene penalizzato nei modelli accademici è la sua natura “non produttiva”: non paga dividendi, interessi, né cedole. Questo implica che il suo rendimento proviene esclusivamente dall’apprezzamento del prezzo, che può essere incostante o influenzato da fattori esterni (inflazione, tassi, geopolitica). Inoltre, l’oro ha una volatilità storica annua attorno al 15%, comparabile con quella dell’azionario, il che lo rende meno interessante per chi cerca un “bene sicuro” nel senso classico.
Tuttavia, è importante distinguere tra rischio e incertezza. L’oro tende ad avere performance migliori proprio nei momenti in cui gli altri beni falliscono, offrendo protezione nei momenti di crisi sistemica. Durante la crisi del 2008, ad esempio, mentre l’S&P 500 crollava di oltre il 50%, l’oro guadagnava quasi il 6%. Anche nel 2020, durante il panico iniziale per il COVID, l’oro ha dimostrato una capacità di recupero molto più rapida rispetto alle azioni.
Inoltre, in contesti di rendimenti obbligazionari reali negativi (come nel periodo 2020-2022), l’oro ha spesso sovraperformato, attirando investitori in cerca di riserve di valore alternative. Un altro aspetto interessante è che, nonostante non generi flussi, l’oro non ha neppure rischio emittente: è un bene fisico, universalmente riconosciuto e con liquidità globale.
#4. Il pregiudizio accademico e culturale
La collocazione dei portafogli odierna, basata su modelli come CAPM (modello finanziario teorico che serve a determinare il rendimento atteso di un investimento in funzione del suo rischio) o la frontiera efficiente di Markowitz, tende a privilegiare beni con flussi di cassa, come azioni e obbligazioni. L’oro, essendo un asset “non produttivo”, viene spesso escluso o relegato a funzione di copertura marginale. Anche i principali fondi pensione e i consulenti indipendenti preferiscono strumenti regolamentati e generanti reddito, lasciando poco spazio a un bene come l’oro, considerato più speculativo.
In realtà, questa visione è anche frutto di un bias culturale. Nei paesi occidentali, l’oro è spesso visto come bene da “collezione” o da tempi di crisi, mentre in culture come quella indiana o cinese rappresenta una forma concreta e accettata di risparmio familiare. È interessante notare che, a livello globale, le banche centrali stanno aumentando le riserve auree: nel 2022 e 2023 si è registrato il maggior incremento di acquisti ufficiali degli ultimi 50 anni, con più di 1.100 tonnellate aggiunte in un solo anno.
Questo dovrebbe far riflettere: se le banche centrali stesse diversificano in oro per ridurre la dipendenza dal dollaro o dall’instabilità geopolitica, perché l’investitore privato dovrebbe limitarlo al 5-10%?
#5. Modelli famosi alternativi con l’oro
Esistono diversi portafogli teorici o pratici che includono una percentuale di oro ben superiore al 10%. Uno dei più noti è il Permanent Portfolio di Harry Browne, ideato negli anni ’80: 25% oro, 25% azioni, 25% obbligazioni a lungo termine, 25% liquidità. Questo portafoglio ha avuto performance stabili con una volatilità contenuta (inferiore al 7% annua) e rintracciamenti massimi intorno al -10%, anche durante crisi importanti.
Un altro modello è l’All Weather Portfolio di Ray Dalio (Bridgewater Associates), che prevede una quota tra 7,5% e 15% in oro e commodities. Questo approccio si basa sull’idea che nessun asset performa bene in tutti i contesti macroeconomici, e che sia necessario bilanciare il portafoglio in base a inflazione, crescita, tassi e deflazione.
Infine, il concetto di Risk Parity propone una suddivisione del rischio (e non del capitale) tra asset decorrelati. L’oro, in questo schema, assume un ruolo più importante perché è uno dei pochi strumenti che protegge bene sia contro l’inflazione sia contro la deflazione.
Simulazioni storiche di questi portafogli dimostrano che una maggiore esposizione in oro non solo riduce la volatilità complessiva, ma migliora anche il profilo rischio/rendimento nei cicli economici più instabili.
#6. Rivedere la soglia del 10%
Alla luce delle performance storiche, della funzione anticiclica e della crescente instabilità macroeconomica globale, un’esposizione all’oro ben superiore al 10% appare più che giustificata. Non si tratta necessariamente di sostituire azioni o obbligazioni, ma di migliorare la resilienza del portafoglio. Una quota tra il 15% e il 20% può essere razionale per chi cerca stabilità, protezione contro eventi estremi e una riserva di valore nel lungo termine.
Naturalmente, l’allocazione dipende dal profilo di rischio, dall’orizzonte temporale e dagli obiettivi personali dell’investitore. Ma i dati mostrano che l’oro ha dimostrato di essere più di una semplice copertura. In un mondo sempre più incerto, forse è tempo di rivalutare il vecchio metallo giallo non solo come un rifugio, ma come un pilastro strategico della diversificazione moderna.
Per concluderei vorrei soffermami su questo ragionamento: se l’oro dovesse coprire da forti crisi di mercato o sistemiche, che senso avrebbe detenerne meno del 50% nel proprio portafoglio? Che senso avrebbe salvare solo il 15% o il 20%? Certo, molto dipende dal profilo di rischio in relazione al tempo per cui si è disposti a sopportarlo, ma oggigiorno non la trovo più un’ipotesi così azzardata.
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